Domenica 7 settembre ’25 ha lasciato per sempre Sollicciano e questo nostro mondo Elena Curcu, una giovane donna rumena di soli 26 anni, senza legami familiari a Firenze, vissuta a lungo per strada nella nostra città. Non era sconosciuta, aveva stretto rapporti con alcuni volontari, con associazioni che si occupano di chi vive il disagio e la marginalità; i giornali hanno scritto che era in ripresa, che aveva prospettive abbastanza buone, ma il suo gesto parla chiaramente di come viene vissuto il carcere da chi è sempre stato ai margini. Sulla sua morte è stata aperta un’inchiesta dalla magistratura.

I giornali sono tornati a parlare di Sollicciano, dove dal dicembre dello scorso anno si erano già verificati 3 suicidi: un detenuto somalo, un egiziano e un rumeno, e una morte per overdose. Ormai noto a livello nazionale per essere una delle peggiori strutture in Italia, fatiscente, sovraffollato, in cima alle statistiche per i casi di autolesionismo, privo di una direzione stabile, periodicamente si parla di una sua possibile demolizione, ipotesi che lascia in ombra il destino dei suoi 565 ospiti. C’è da chiedersi quanti sarebbero i suicidi se non operassero nel carcere, in mezzo a mille difficoltà, le associazioni di volontariato fiorentine. Le condizioni della popolazione detenuta – con il 64% di ospiti stranieri, molti malati psichici e tossicodipendenti, detenuti che non possono accedere alle misure alternative per la loro condizione di marginalità -, vengono alleviate solo da attività quali la scuola e alcune iniziative culturali e dalla presenza costante delle associazioni che con i loro volontari svolgono colloqui, supportano chi è in condizioni di indigenza, forniscono assistenza legale, cercano di presidiare il momento dell’uscita dal carcere, particolarmente difficile per la mancanza di lavoro e di strutture sul territorio.

Alcune associazioni si sono interrogate sul senso del loro lavoro, che rischia costantemente di essere vanificato dall’impatto con le condizioni della struttura; con esse alcune realtà di base interessate a far emergere il punto di vista della cittadinanza più attenta a contrastare l’indifferenza che alcune forze politiche sembrano incoraggiare – tra queste la Comunità dell’Isolotto – hanno iniziato a riunirsi alcuni mesi fa, scambiandosi informazioni, discutendo di cosa fare, di come coordinarsi, di come fare pressione sulle istituzioni. Spesso in questi incontri è forte il senso di impotenza, ma Firenze ha una grande tradizione sul piano dell’umanizzazione del carcere, della tensione al suo superamento, della difesa dei diritti dei detenuti. Figure come Alessandro Margara, Bruno Borghi e tanti altri/e hanno lasciato un’eredità importante che cerchiamo di portare avanti.
Purtroppo la buona volontà di tanti, anche nelle istituzioni, sembra per ora non riuscire a incidere in una situazione nella quale chi ha le responsabilità istituzionali più forti è impegnato soprattutto, con il decreto sicurezza e misure simili, a far affluire nelle carceri, comunque esse siano, nuovi detenuti: soprattutto stranieri, poveri ed emarginati (tra questi grazie al decreto Caivano molti minori), e non si preoccupa delle condizioni di vita della popolazione detenuta, sempre più debole e meno tutelata.
Tuttavia queste realtà di base e dell’associazionismo si ostinano a sentire il problema del carcere come un problema di tutti, che definisce la qualità della nostra superstite democrazia; sono del parere che proprio per le loro drammatiche condizioni strutturali, Sollicciano e il Gozzini (dove tra l’altro negli ultimi mesi le domande di assistenza legale rimangono disattese), meritino un’attenzione costante. In questa ottica, e sempre tenendo conto della durezza delle condizioni di detenzione a cui sono sottoposti gli ospiti degli istituti fiorentini, le istituzioni e i responsabili delle strutture dovrebbero porre in campo ogni azione idonea a preservare le vite, l’esistenza concreta delle persone che stanno scontando la pena, attraverso la tutela dei loro diritti fondamentali, tra cui quello alla salute anche psichica, e il presidio degli aspetti legali e burocratici. Si tratta a volte di condizioni minime di umanità auspicate anche da chi è sempre attento a quella periferia esistenziale rappresentata dal carcere (si veda il recente intervento dell’arcivescovo Gambelli). In attesa di interventi strutturali e risolutivi, è pensabile operare nel quotidiano perché i detenuti non siano abbandonati a se stessi, affidati a pochi educatori e ad un solo mediatore culturale, è possibile riuscire ad evitare che in molti escano a fine pena senza documenti e senza alcun supporto?
Queste sono solo alcune delle tante domande di chi si occupa del carcere evitando che diventi un inferno ancora peggiore. Condividiamo la testimonianza di Mauro Papucci dell’Associazione Amici del Cabiria di Scandicci, un volontario che ha conosciuto Elena, e che con il messaggio che diffondiamo esprime tanti dubbi, domande, perplessità.
Sabato è morta Elenina, forse la ragazza più attenta e sveglia tra le ospiti della struttura. A primavera avevamo discusso de “Le mie ragazze di carta”, un film che a lei era parso volgare.
Com’è possibile conversare con una donna, che dopo pochi giorni non vede alcuna alternativa a quella di darsi la morte? Non saprei dire.
Nei giorni immediatamente successivi sono tornato a Sollicciano: le attività programmate arrancano nel disinteresse generale con grande difficoltà, persone conversano amabilmente fumando anche nei locali chiusi, gli educatori affannati fanno quello che possono, i professori stanno organizzando per il nuovo anno scolastico. Nulla di nuovo, come niente era cambiato l’anno scorso per il suicidio del ventenne tunisino Fedi, poco dopo che la signora Boschra aveva perso la sua bambina al quarto mese di gravidanza. Tutto diventa routine, tragica se vogliamo, ma sempre routine!
In quella occasione ci eravamo interrogati all’interno della nostra Associazione se come volontari potremmo fare di più e meglio, almeno per cercare di stare accanto ai più fragili e vulnerabili in una situazione estremamente critica. Non abbiamo trovato risposta: qualche detenuto ci ha detto che siamo “la loro finestra verso la libertà”, sarà vero oppure siamo soltanto la famosa “foglia di fico” a coprire le vergogne di un’istituzione non più riformabile?
Adesso assisto un po’ incredulo alla discussione nel coordinamento delle associazioni: bene ha fatto Pantagruel a scrivere ai candidati alle prossime elezioni regionali, chiedendo un impegno fattivo –in caso di elezione- sui problemi del carcere: qualcuno si impegnerà ad ottobre per poi dimenticare a novembre, in pratica si avranno gli stessi effetti che ebbero il presidio fuori del carcere dell’anno scorso con passerella di politici e amministratori e la fiaccolata della Settimana Santa. Assolutamente niente.
In alternativa che cosa vogliamo fare? Davvero c’è qualcuno che pensa che il carcere potrebbe essere chiuso, demolito, ricostruito ex-novo grazie alla nostra azione? Abbiamo avuto governi che garantivano di richiamarsi ai valori della solidarietà e non si sono visti apprezzabili cambiamenti, adesso con i personaggi che ci ritroviamo nei ministeri pensiamo che ci sia qualcuno disposto a mettersi in gioco per i detenuti? Dobbiamo prendere atto che siamo di fronte ad una istituzione che non potrà modificarsi significativamente nel prossimo futuro; allora? vogliamo chiudere gli interventi a Sollicciano dei volontari, oppure far revocare a tutti l’art. 17?
Tra gli operatori e direttivi nessuno si straccerebbe le vesti per questo. Forse ne soffrirebbe solo qualche detenuto, che si troverebbe ancora più solo e disperato a fronteggiare una situazione che al momento non presenta vie d’uscita.
Teniamo alta l’attenzione su questa struttura, sulle persone che la vivono, facciamo controinformazione fra la gente, esercitiamo pressione presso le istituzioni e gli amministratori, se ne saremo capaci, ma credo che Giancarlo, neo garante delle persone private della libertà del Comune di Firenze, abbia ragione: continuiamo anche con piccoli interventi a fare quello che sappiamo fare per migliorare l’esistente per quanto è possibile, garantendo una presenza caparbia a fianco di coloro che più di tutti subiscono questa tragica situazione.
Mauro Papucci dell’Associazione Amici del Cabiria di Scandicci